Nacque a Roma il 15 gennaio 1898 da famiglia originaria di Monte Vidon Combatte, dove spesso tornò dalla sorella, e dove la gente lo ricorda ancora scorrazzare in moto o raccontare delle sue avventure. Di cose avventurose da raccontare Aurelio Rossi le ebbe. Fu un eroe di guerra pluridecorato, cacciatore appassionato, esploratore in Africa.
Volontario a 18 anni con il grado di tenente nella prima guerra mondiale negli arditi del 13° Reggimento bersaglieri, più volte ferito, meritò tre medaglie d’argento al valor militare. Finita la guerra si laureò in giurisprudenza, ma non esercitò mai perché seguì il suo spirito avventuroso. Per alcuni anni esplorò l’Africa nelle terre dei grandi laghi, cacciando grandi prede, ma anche studiando la fauna e gli usi degli indigeni.
Raccolse i suoi scritti in un libro, Tra elefanti e pigmei, pubblicato da Mondadori nel 1931 e raccontò le sue avventure con una prosa sciolta, leggibile con facilità e con l’attrazione di chi ama l’avventura. Scrisse da europeo colonizzatore, poco attento al rispetto degli usi e dei modi di vita primordiali degli indigeni. Imbalsamò molti esemplari rari di fauna da lui cacciati che poi donò al Museo milanese di Storia naturale.
Di indole irrequieta e interventista, fu ancora volontario in Abissinia nel 1935, di stanza in Eritrea: ancora ferito, ancora decorato con due medaglie al valor militare. E qui esce la figura imparagonabile dell’uomo coraggioso, sprezzante del pericolo: richiamato a domanda con il grando di capitano allo scoppio del secondo conflitto, fu assegnato prima al coloniale poi al fronte greco. Gravemente ferito e rimpatriato, volle tornare sul fronte, anzi, più che quarantenne si fece assegnare ai reparti paracadutisti e con il grado di maggiore comandò il IX Battaglione della Folgore sul fronte africano, prendendo parte alla leggendaria “corsa dei sei giorni” di El Alamein.
Alla fine di agosto 1942 il suo battaglione conquistò e difese la strategica quota 101 di Deir Alinda, fino alla battaglia finale nella quale Rossi cadde da eroe. Gli fu assegnata la medaglia d’oro al valor militare con questa motivazione: (…) distintosi in numerosi combattimenti per coraggio e sprezzo del pericolo, sosteneva in critica situazione un violento attacco di reparti corazzati, stroncandolo ed infliggendo all'avversario gravi perdite di uomini e mezzi. Posto quindi a presidio di una postazione divenuta l'obiettivo centrale dell'offensiva avversaria, resisteva con tenace fermezza, sempre presente fra i suoi uomini nei punti più esposti, a violentissimi reiterati attacchi che rintuzzava con audaci contrattacchi. Ferito gravemente rifiutava di lasciare il comando del battaglione e indomito persisteva nella cruenta impari lotta. Colpito mortalmente pronunciava fiere parole animatrici per i suoi soldati ed immolava con sublime eroismo la sua vita educata al più puro amore di Patria e alla sacra religione del dovere (…).
Giovanni Martinelli