2014.11.24 – “LUDWIG VAN BEETHOVEN: SORDITA’ E NON SOLO …” di Paolo Signore

Pubblicato il 24 Novembre 2014 da admin

Paolo Signore

Paolo Signore

Capelli lunghi e ribelli, testa massiccia e “leonina”, volto pieno e rotondo con chiari segni di cicatrici del vaiolo, occhi scuri e penetranti, fronte bozzoluta, ampia ed arcuata, sopracciglia folte e crespe, zigomi pronunciati, mento largo, collo corto e tozzo, tarchiato, muscoloso, spalle larghe e busto ricurvo, carnagione olivastra per cui soprannominato “der spanier” (lo spagnolo), il tutto non certamente a richiamare una pura e comprovata origine ariana: Ludwig Van Beethoven nacque a Bonn il 16 Dicembre 1770 e crebbe in un ambiente familiare e culturale non consono  alle sue tendenze creative e musicali, con una madre umile ma onesta lavoratrice ed un padre, alcolizzato e maldestro cantante, convinto del genio e del talento musicale del figlio al punto di volerne fare un novello Mozart (a otto anni il ragazzo esegue il suo primo concerto al clavicembalo).

Ma  Ludwig  non si sente assolutamente un énfant prodige. Assertore dell’indipendenza, libertario e per certi versi anche rivoluzionario, pervaso da una incontrollata ribellione nei confronti degli arbitrii e dell’ingiusta severità del padre, all’età di 22 anni decide di trasferirsi a Vienna, città che più lo avrebbe apprezzato e in cui poi si sarebbe fermato per il resto della sua vita.  A Vienna portò con se, ingravescente, inesorabile, impietoso, un tarlo che ne condizionò di lì in avanti l'intera esistenza: l’ipoacusia bilaterale, comparsa all'età di 27 anni, che interessò dapprima l'orecchio sinistro e poi quello destro, ben presto sfociata in completa sordità, un muro del silenzio profondo ed insormontabile che già all'età di 39 anni non permetteva più la benché minima percezione di voci e suoni tanto che, nel 1809, nello sconforto più profondo, compose la Quinta Sinfonia  senza poterla ascoltare.

La prospettiva poi di rimanere sordo per sempre senza la possibilità di un benché minimo recupero funzionale fa entrare Beethoven in uno stato di profonda depressione:

“Con gioia vado incontro alla morte: non mi libera forse da uno stato infinitamente penoso?”.

Ma un incontro inaspettato e felice lo risolleva dal suo stato di catatonica depressione, quello con l’incantevole ragazza bruna, quindicenne, esuberante, contessina Elisabetta Guicciardi, cugina della contessa Therese Brunvik, la cui abitazione Ludwig frequenta come

insegnante di pianoforte. Il musicista se ne innamora perdutamente e le dedica la Sonata in Do Diesis Minore, il famoso Chiaro di luna. Arriva anche a pensare al matrimonio, ma ne riceve un diniego assoluto: la bella italiana preferisce sposare il giovane ed aitante conte Robert Von Gallenberg, mediocre autore di musica per balletti.

      La delusione per la Guicciardi è cocente, i disturbi uditivi si aggravano sempre più e Beethoven ripiomba così  nella depressione più profonda. Non cura la sua persona ed i viennesi, che poco lo conoscono, vedono girovagare per le vie della città un tipo singolarmente sciatto, sudicio, che a gomitate si fa largo tra la folla, senza guardare nessuno in faccia. Sul capo una bassa tuba calcata fino alla nuca, la redingote che si gonfia dietro, tanta è la carta da musica che riempie le tasche, da cui spuntano penne, matite ed appunti. Di tanto in tanto si ferma, borbotta, canticchia, batte il tempo e poi riprende a camminare incespicando sulle scarpe slacciate. La sua espressione diventa costantemente contratta e crucciata e raro è trovare il sorriso nel suo volto. Peraltro è disordinato e maldestro ed essendo anche molto miope rompe inevitabilmente tutto quello che tocca. Ha la pessima abitudine di sputare dappertutto ed una volta, scambiato per un accattone, viene anche arrestato dalla gendarmeria.

      Nel 1802 il dottor Schmidt consiglia un lungo periodo di riposo in campagna, nell’isolamento più completo, lontano da frastuoni e rumori, “per riposare l’animo e l’affaticato organo dell’udito” : Ludwig passeggia, ascolta il cinguettio degli uccelli, il sibilo del vento, il mormorio dei ruscelli, il vocio dei contadini ed in questa pace assoluta concepisce e compone la magnifica VI Sinfonia (Pastorale):  “Le quaglie, gli usignoli, i cuculi l’hanno composta con me”.

     Ma la sordità avanza inesorabile e così Beethoven decide di tornare a Vienna dove migliori e più efficaci possono essere le cure, seppur del tutto inutili: lavaggi saponosi, batuffoli d’ovatta imbevuti di rafano, suffumigi, pozioni, diuretici, sudoripari, vescicanti, acque termali, instillazioni di oli e misture di bucce di noci cotte nel latte, anche improbabili quanto inefficaci diete speciali a base di rabarbaro e colla di pesce. Poco risolvono poi i cornetti acustici costruiti appositamente per il maestro dall’abilissimo meccanico di corte Johann Malzl, inventore del metronomo.

     La malattia gli impedisce di sentirsi felice in un’alternanza di speranze e di sconforti che lo costringono a sfuggire la gente, a suonare sempre meno, a non dare concerti per rifugiarsi, sconsolato e depresso, nel suo disordinato studio tra pozze d’acqua, stoviglie non lavate, indumenti sparsi, polvere padrona e l’immancabile pianoforte. E’ costretto a servirsi di quaderni dove scrivere musica, domande e risposte: sono i famosi Konversationshafte (quaderni di conversazione), molti dei quali salvati, conservati e pubblicati e che costituiscono una fonte documentale di incalcolabile valore sugli ultimi anni di vita del maestro.

     Molto si è discusso sulla causa della sordità di Beethoven: dall’Otosclerosi (giustificata dalla perdita progressiva dell’udito) al Tifo Addominale sofferto in giovane età (nel 5% dei casi il tifo provoca a distanza di anni otite adesiva cronica con conseguente perdita dell’udito), da una degenerazione di origine Luetica quale espressione di una Sifilide Terziaria (peraltro da escludere vista la giovane età di insorgenza dell’ipoacusia nel nostro paziente) all’ipotesi del  Morbo di Paget (Osteite Deformante) che nel tempo può portare ad ipoacusia progressiva e sordità (evenienza questa molto interessante e verosimile viste le deformità ossee di cui Beethoven era affetto).

     Non è però la sordità l’unica malattia che lo affligge: nei suoi quaderni di conversazione parla di “terribili mal di testa che non mi permettono di lavorare”, di “malessere generale, catarro, febbre ed infezione intestinale con diarrea e terribili di pancia”. Comincia così a frequentare le stazioni termali e chiama al suo capezzale un medico italiano, il dottor Giovanni Malfatti, famoso a Vienna anche perché medico curante della Principessa Beatrice e dell’Arciduca Karl. Nei suoi incontri con “il furbo italiano dottor Malfatti”  Ludwig si innamora di sua figlia Therese a cui dedica Per Elisa  ed a cui propone anche il matrimonio. Ma, sia per i continui rifiuti di Therese che per l’inefficacia delle terapie proposte dal padre, il rapporto medico-paziente ben presto si deteriora fino ad arrivare al litigio ed alla rottura e così il maestro si rivolge al dottor Staudenheim, curante del Kaiser, che impone al paziente una misura poco gradita: abolizione assoluta degli alcoolici di cui Ludwig faceva un uso smodato.

     Nel 1821 compare all’improvviso una triade sintomatologica altamente significativa: ittero (aumento della bilirubina nel sangue), ascite (trasudato di liquidi nella pancia), ed ematemesi (vomito di sangue dovuto a varici dell’esofago), evidenti espressioni di una grave ed avanzata compromissione del fegato che evolve verso la cirrosi.

     Ma i guai non sono finiti. Nel Dicembre del 1826 il musicista ammala di polmonite, che si risolve nel giro di una settimana, ma ben presto le condizioni generali peggiorano: ricompaiono le coliche addominali con diarrea, ittero ed ascite, che si fa peraltro sempre più abbondante. Il dottor Staudenheim decide di eseguire una paracentesi (aspirazione di liquido nella cavità addominale) che nell’arco di una decina di giorni verrà ripetuta altre tre volte, l’ultima delle quali con aspirazione di ben 14 litri di liquido. Le condizioni peggiorano ancor più, persiste la febbre e compaiono decubiti sanguinanti sul dorso, per cui Beethoven decide di richiamare al suo capezzale il dottor Malfatti che prescrive al paziente punch ghiacciati, frizioni all’addome con acqua tiepida e bagni in acqua bollente con foglie di betulla: malfece il Malfatti!

     Prostrato, debole, disidratato, dispnoico, scompensato, inesorabilmente aggredito dalla implacabile cirrosi epatica, alle 18.30 del 27 Marzo 1827 Ludwig Van Beethoven muore, non prima di aver bevuto l’ennesimo calice di vino ed essersi rivolto ai presenti:

“Plaudite amici, finita è la commedia!”.

Paolo Signore

Ludwig van Beethoven

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