2013.11.18 – “Figlioli miei, keynesiani immaginari” di Luca Romanelli

Pubblicato il 18 Novembre 2013 da admin

Luca Romanelli

Luca Romanelli

Quando sento i politici italiani, specie quelli della sinistra “storica”, parlare devotamente di Keynes, mi torna in mente dai ricordi di giovinezza il titolo del fortunato libro di Alberta Ronchey.

La bandiera keynesiana è oggi sollevata contro il “rigore che uccide”, “la tecnocrazia europea”, i tedeschi e “la macelleria sociale”, citando con entusiasmo i premi Nobel Krugman e Stiegliz. Dio e Marx sono morti, rimane Keynes.

Keynes ha dato un contributo decisivo all’uscita dalla grande recessione degli anni ’30, chiarendo come politiche monetarie e fiscali espansive possano favorire la crescita del reddito attraverso l’attivazione di capacità produttiva (forza lavoro in primo luogo) inutilizzata durante le crisi. L’aumento di reddito che ne segue “ripaga” in seguito la spesa pubblica fatta in deficit, mantenendo in equilibrio i conti pubblici.

Se fosse così facile saremmo già fuori dal tunnel. Ci sono invece due o tre fatti che i keynesiani immaginari ignorano o fingono di ignorare.

Il primo riguarda la politica monetaria e la sua inefficacia in presenza di un fenomeno che già lo stesso Keynes aveva studiato: la trappola della liquidità. La trappola scatta quando malgrado le banche centrali inondino quelle commerciali di denaro prestato ad interessi bassissimi, queste poi non lo impiegano per finanziare investimenti o consumi. La massa monetaria creata viene parcheggiata in titoli di stato o peggio immessa in attività speculative che non alimentano la produzione reale e sono condotte a volte da grandi gruppi con la criminale consapevolezza che, se andasse male, i governi li salverebbero per evitare danni peggiori al sistema.

In questo caso la politica monetaria espansiva non solo non crea posti di lavoro, ma destabilizza l’economia attraverso i rischi occulti nel sistema finanziario.

Perché allora le banche non prestano denaro ad imprese e famiglie? Perché hanno paura che i prestiti non saranno rimborsati. L’Italia, tra i paesi sviluppati, ha un’altissima percentuale di imprese con utili insufficienti a sostenere il peso del debito già contratto e scarsa fiducia nel futuro. Invece di fare nuovi investimenti a prestito, queste aziende contraggono le attività per ripianare come possono la situazione debitoria. Le nostre banche hanno già un’altissima percentuale di crediti in sofferenza, che tende a paralizzarle. Non vogliono assumersi altri rischi, perché gli azionisti ne potrebbero soffrire fino a perdere il controllo delle aziende.

Lo stesso Krugman riconosce che siamo ora effettivamente in una trappola della liquidità in tutto l’Occidente.

Si potrebbe allora keynesianamente dire che per far ripartire le imprese occorre spesa pubblica in deficit o riduzione delle tasse senza equivalente riduzione della spesa. Sorgono però due problemi.

Il primo è che dai tempi di Keynes i mercati sono diventati più informati. La teoria economica successiva ha chiamato questa consapevolezza “aspettative razionali” o “mercati efficienti”. Se un governo spende in deficit in maniera insostenibile, la gente, prevedendo maggiori tasse in futuro per ripianare il debito, comincia a risparmiare di più o ad esportare all’estero i maggiori ricavi, senza farli ricadere sull’economia locale. La manovra di bilancio diviene quindi inefficace e produce squilibri nei conti pubblici e maggiore incertezza nei mercati. Queste a loro volta possono incoraggiare attacchi speculativi alla moneta e crisi dei debiti sovrani. Questo film l’abbiamo visto recentemente nelle nostre sale.

I keynesiani americani hanno un’arma in più che noi europei non abbiamo. Il dollaro è ancora la valuta di riserva internazionale e questo la mette al riparo dagli attacchi speculativi, che avrebbero bisogno di assumere risorse e rischi enormi. Italia, Grecia e Portogallo sono invece alla portata, come sappiamo.

Non c’è bisogno di aver studiato ad Harvard per capire che se Letta, con il 132 % di rapporto debito/PIL ed un’economia stagnante, si mette a sforare gli investitori internazionali ci massacrano immediatamente.

Allora bisogna spararsi? No.

La chiave di una politica sana del bilancio pubblico sta nella sua “sostenibilità”, cioè nella capacità di convincere i mercati che la spesa pubblica produrrà significativi aumenti del reddito e non rendite parassitarie che perpetuano la palude.

Perché questo non avvenga occorre, specie in questa fase critica italiana, fare in modo che le solite lobby (gruppi finanziari opachi, grandi evasori, politici ed imprese pubbliche decotte ed inefficienti, corporazioni troppo ben organizzate, pensionati d’oro, mafie) non mettano le mani su risorse che invece devono incoraggiare l’attività di persone ed imprese sane, con idee innovative e voglia di fare.

Occorre quindi tagliare sprechi e privilegi a favore delle fasce di popolazione meno tutelate e desiderose di futuro, a cominciare dai giovani. E anche dare fiducia a chi rischia, per esempio riformando il diritto fallimentare e finanziando nuove imprese innovative, ma soprattutto creando spazi per l’iniziativa privata e pubblica.

Tutto ciò è impossibile senza una classe dirigente radicalmente rinnovata, che “non guardi in faccia a nessuno” ma parli con onestà e verità a tutti.

Luca Romanelli - www.lucaromanelli.it

 Share

I commenti sono disabilitati.