2012.04.11 – “Abitare le città: ricostruire un codice condiviso dello spazio” di Luca Romanelli

Pubblicato il 11 Aprile 2012 da admin

 

Luca Romanelli

Il ciclo di incontri che il Centro Culturale San Rocco (www.centrosanrocco.it) dedica quest’anno al tema dell’abitare declina con chiarezza le criticità che affliggono la vita urbana ed il paesaggio. Le riflessioni che seguono debbono quasi tutto alla relazione del 10 marzo di Elena Granata, urbanista del Politecnico di Milano. Il rapido passaggio all’economia industriale e le grandi migrazioni dalle campagne alle città (inclusa quella “città adriatica continua” che è diventata la nostra costa) hanno stravolto, specialmente in Italia,  quello che Salvatore Settis chiama “il codice dello spazio” urbano e rurale. Il codice dello spazio è un sistema di elementi architettonici ed urbanistici chiaramente leggibili da una comunità e che ne esprimono, funzionalmente e simbolicamente, il modello di convivenza. Il compito dell’architettura e dell’urbanistica è costruire codici dello spazio, paesaggi urbani e rurali, adattandoli all’evoluzione economica e sociale. Nella città medioevale o rinascimentale italiana, che il mondo ci invidia, il codice era fatto di  piazze, palazzi comunali, teatri storici, mercati, reticoli di vicoli convergenti sulle chiese o i mercati delle contrade. Il codice è anche la relazione che si stabilisce tra interno ed esterno, tra abitazione e strada, tra vita privata e pubblica. Il modo in cui si pensa la strada urbana ci dice molto sulle relazioni sociali: la disposizione degli edifici, i loro accessi, l’arredo, la presenza di servizi commerciali e di prossimità. Anche l’architettura dei manufatti marca con potente forza simbolica lo stile di vita degli abitanti: si pensi ai nuovi ed eleganti quartieri umbertini a Roma, o, da noi, a come erano il settecentesco Borgo Marinaro di Porto San Giorgio, geometrico e razionale pur nella sua povertà, ed il Viale della Vittoria, spaziato da graziose rotonde e coronato da ville e villini liberty, spazio ideale per una borghesia nascente ed una nobiltà che voleva uscire dagli atavici palazzi fermani. Il codice dello spazio rurale era fatto invece di muretti, filari di piante, pievi, corsi d’acqua, dalle “comunanze” nate per rispondere collettivamente a bisogni comuni, dal reticolo delle colture con i loro colori. Che cosa è successo nel dopoguerra in Italia, ma anche più recentemente, con la crescita esponenziale dell’immigrazione straniera? E’ successo che né la politica nè l’architettura, soprattutto per la presenza di forti conflitti di interessi, hanno saputo costruire un  nuovo codice condiviso dello spazio che interpretasse i nuovi assetti sociali, favorendo processi virtuosi di re-integrazione dei migranti. Gli spazi urbani si sono spesso disintegrati in unità isolate tra loro, diventando a volte fabbriche di solitudine ed alienazione, “non luoghi” privi di identità. Inoltre ci stiamo rapidamente mangiando quella bellezza ed unicità del paesaggio per cui da secoli siamo considerati “il Bel Paese”: stiamo segando il ramo dove sediamo, svuotando un giacimento unico di bellezza. Ecco di seguito un piccolo dizionario del degrado paesistico italiano (e non solo). 1. Sprawling: crescita “spontanea” di anonime agglomerazioni urbane senza un progetto unitario che identifichi organicamente spazi pubblici, servizi, tipologie costruttive, arredo urbano che diano un “carattere” di quartiere ai nuovi insediamenti. Questa “urbanistica a pezzetti”, modellata sugli interessi dei privati e su trattative con amministrazioni comunali inconsapevoli anche quando in buona fede, ci hanno regalato (solo per rimanere in casa) Santa Petronilla, l’occupazione indiscriminata dei crinali dal centro storico di Fermo verso il mare con una serie di manufatti spesso orribili e senza nessuna continuità, quartieri dormitorio scoordinati e brutti come San Michele e Marina Palmense. In questi “non luoghi” si rompe la tradizionale e virtuosa relazione tra interno ed esterno. Gli individui e le famiglie si introvertono e perdono progressivamente l’ amor loci, l’attaccamento al luogo dove vivono. Divengono quindi anche più difficili le tradizionali relazioni solidali e di supporto alle persone in difficoltà, un tempo un punto di forza delle nostre comunità. I “non luoghi” rendono la vita più dura per gli anziani soli, gli immigrati che si vogliono integrare, i separati. 2. Banalizzazione, snaturamento o svuotamento dei centri storici. La mancanza di una programmazione urbanistica coerente e di lungo periodo ha favorito l’esodo della popolazione e la morte del commercio nei centri storici. Quando va bene, nelle località di maggior prestigio, i centri si riempiono di un commercio seriale, con le stesse griffe che si vedono oramai ovunque e che ne distruggono l’atmosfera unica, oscurando i segni della storia e i caratteri del genius loci. Oppure proliferano le seconde case: ben tenute ma vuote gran parte dell’anno. Forse il male forse peggiore è lo snaturamento dei centri attraverso il succedersi di interventi incongrui e scoordinati. A Porto San Giorgio, nel Borgo Marinaro, i manufatti storici sono stati sostituiti nel tempo da un caos sgradevole di edifici di diverse altezze, senza balconi o con balconi disallineati tra loro, con mattoni o intonaci, di mille colori diversi. Il quartiere è afflitto dalla babele dei mercati di strada e dal traffico dello struscio sui viali. Gli anziani rimasti si barricano nella loro solitudine. Molti dei loro vicini arrivano solo d’estate, o nei fine settimana, o affittano a turisti. 3. Eccesso di edificazione e consumo del suolo. Gli (ancora oggi) alti profitti per i costruttori, la loro contiguità con la politica ed i tecnici comunali, le speculazioni finanziarie delle banche nel concedere finanziamenti senza garanzie adeguate, il riciclo di capitali sporchi, la fame di risorse dei comuni e dei politici locali stanno generando un dissennato consumo di territorio, mai così alto come negli ultimi 5 anni, malgrado la crisi, specie nei piccoli comuni. 4. “Fordismo” alienante delle zone produttive. I mega centri commerciali e le (troppe da noi) aree produttive, pur necessari per lo sviluppo e la modernizzazione delle aziende, sono stati pensati mortificando  le relazioni sociali e le attività creative implicate nel commercio e nella produzione. In questi contesti il consumatore o il lavoratore tendono ad agire isolati, sopraffatti dagli stimoli all’acquisto o dagli input della macchina. Tutto il contrario dei mercati cittadini di un tempo. La stessa grande distribuzione o le imprese più innovative si stanno rendendo conto di quanto sia controproduttivo questo approccio, che induce crescente insofferenza in clienti e collaboratori. In campo turistico, si pensi all’eccessiva cementificazione della spiaggia fermana (come tante altre) che ha separato i nuclei urbani dal mare, creando una innaturale “fabbrica del divertimento” in un luogo incongruo, con ricadute sul benessere dei cittadini e l’ordine pubblico. Oppure al mostro Tre Archi, un lager illusorio di vacanza per gli operai del nord che volevano finalmente comprare la prima casa al mare. 5. Compromissione del paesaggio rurale: sprawling nei fondovalle, tipologie costruttive incongrue nei fondi rurali, specie sui crinali, dissesto idrogeologico, abbandono delle campagne. Che fare allora? La sfida è quasi disperata, perché gli architetti (anche l’accademia)  in Italia sono sostanzialmente al servizio dei costruttori, la politica è troppo fragile ed incompetente per gestire un cambio di rotta radicale, c’è un pregiudizio diffuso anche tra gli economisti che costruire (anche male) è essenziale per la crescita. Soprattutto vi è un legame fortissimo e perverso, come la cronaca ci racconta ogni giorno, tra interessi immobiliari, tecnici e politici. La cosa più urgente sarebbe quindi spezzare questo legame e togliere l’urbanistica dalle mani della politica, per affidarla ad organismi tecnici, facendo di tutto perché questi siano svincolati dalle pressioni dei gruppi di interessi. Naturalmente la politica griderebbe all’”esproprio della democrazia” ma non sarebbe proprio così. Si potrebbe immaginare un sistema ove la politica decide ciò che le è proprio nella programmazione urbanistica, cioè gli obiettivi in termini di crescita della popolazione, risposta alle esigenze della produzione, integrazione sociale, tutela del patrimonio culturale ecc. Di fronte ad un dibattito pubblico serio, dubito che tali indirizzo sarebbero moto difformi da quanto si è argomentato sopra. La politica potrebbe  invece non entrare necessariamente nelle scelte tecniche, anche perché è lì che si cade più fortemente in tentazione. L’attuazione tecnica dei principi guida dovrebbe essere affidata ai tecnici attraverso l’elaborazione di strumenti pianificatori complessivi e vincolanti, come le VAS (valutazioni ambientali strategiche), i PPAR (Piani Paesistici) e PTC (Piani Territoriali di Coordinamento) e i PRG (Piani Regolatori). Il processo decisionale dovrebbe attraversare un severo e trasparente  meccanismo di revisione e controllo delle scelte da parte di altri tecnici, associazioni ambientaliste e forze sociali, la stessa politica. Bisognerebbe inoltre limitare al massimo o forse proibire le “varianti urbanistiche ad hoc”, che sono il spesso il cavallo di Troia delle operazioni più devastanti. Bisogna inoltre gravare le nuove edificazioni con oneri corrispondenti ai costi reali della loro integrazione organica nel tessuto paesaggistico locale, vincolando i fondi alla effettiva realizzazione di investimenti pubblici in tale direzione, e non, come dal 2008, consentire che questi (gli oneri di urbanizzazione) finanzino la spesa corrente dei Comuni. In attesa di una riforma radicale, occorre alimentare segnali di speranza, puntando su progetti più circoscritti ma significativi, che puntino sull’innovazione ed il recupero di spazi pubblici e di convivenza, a partire dalle situazioni più disagiate. Elena Granata ne ha indicati alcuni (la Barona a Milano, Le “Case Canguro”, le comunanze di Cassego in Liguria) il cui tratto comune è la ri-connessione degli abitanti non solo attraverso spazi dedicati, spesso sottratti al degrado, ma anche processi quali le banche del tempo, il lavoro volontario comunitario, il co-finanziamento di beni e servizi comuni. Luca Romanelli -  www.lucaromanelli.it

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